Global
Il primo scorcio di 2019 sembra un po’ ingolfato.
Il sistema di contraddizioni che assilla l’establishment
globalista ha bisogno di accelerare i tempi e così, per citare una metafora che
si usa dalle mie parti, “la procession
s’ingruma”.
Lo sblocco della situazione siriana, avvenuto grazie alla
vittoria diplomatico-militare di Putin e Assad è proceduto ma lasciando sul
tavolo la questione curda. In quello scenario gli americani non sono in grado
di onorare le promesse e lasciano alle milizie curde il compito di presidiare
la regione dai rischi ISIS/Al Qaeda. Ciò fa incazzare Erdoghan il quale vive
sempre di più la NATO come una camicia di forza. Ma se la tiene come carta di
riserva antirussa. Tanto i Sauditi vengono tenuti per il momento da parte con
la scusa del caso Khassogj.
La Cina ha mandato ampi segnali di potenza. Essi sono
essenzialmente tre: lo sbarco sulla Luna, che ha un lato imbarazzante per
l’occidente e il suo alibi marziano, gli annunci sulla clonazione umana,
travestiti in occidente da azioni irresponsabili di qualche scienziato pazzo, e
la vittoria tecnologico-commerciale di Huawei su Apple.
Donald Trump, un presidente che il sistema democratico ha
insediato al di fuori dei piani di establishment e non ancora omologato, dopo
il successo degli accordi nucleari con la Corea Nord, sta andando alla grande
in termini di risultati occupazionali e sondaggi di gradimento popolare. Il suo
vero nemico interno, cioè il cosiddetto deep
state, si configura in questa fase come unica risorsa utilizzabile
dall’establishment per condizionarlo e da qui nasce la vertenza shutdown. Essa esprime il tentativo di
mettergli contro i dipendenti della pubblica amministrazione Federale. Ma è
solo una vicenda interna molto pompata in termini comunicativi. Dietro ci sono
i piani di migrazione globale dai quali dipende la sostenibilità dei debiti di
lungo periodo. E il muro trumpiano sarebbe un forte atto di contrasto per
questa politica globale. Le previsioni di crescita dei PIL infatti non sono
credibili senza forti iniezioni di manodopera immigrata e i mutui
pluridecennali risultano sostenibili solo con valori di PIL a crescita certa.
Ciò comporta che ogni rallentamento dei flussi migratori, soprattutto negli
stati occidentali, preoccupa la finanza internazionale che reagisce rallentando
gli investimenti. E così il primo scorcio 2019 agita lo spettro della
recessione.
L’ UE ha un appuntamento elettorale importante verso
primavera, un appuntamento al quale varrebbe la pena di arrivare senza
emergenze migratorie, con la Brexit risolta e le rivalità interne al gruppo
fondatore pacificate. Ciò produce un effetto ansiogeno perché per risolvere
queste partite c’è poco tempo: poco più di un mese. Da qui la tendenza a
chiudere i contenziosi internazionali. Ne è un esempio la composizione delle
vertenze diesel gate.
In questo scenario anche la politica si riorganizza. Le
componenti storiche, ovvero socialisti e popolari, sanno di essere al
crepuscolo ma fanno finta di niente per alzare il prezzo della successione;
dovranno infatti cedere progressivamente il patrimonio elettorale al miglior
offerente del futuro scenario populista. Ma il modello di business non è ancora
definito e sono in corso manovre di polarizzazione. In Francia Macron non
funziona, un po’ come Renzi, mentre in Germania la Merkel ha già avviato il
processo accennando ad una sintonia con forze innovative che conservino un
segno ecologista.
In Italia la partita è sempre aperta ma il governo apre
l’anno con in tasca una legge di bilancio passata senza traumi verso l’UE e
senza traumi interni. Ciò dimostra che la coesione del paese non è messa in
discussione dall’attuale assetto di governo.
Venetismo
A mettere in discussione lo stato coesivo del Paese potrebbe
essere la partita territoriale. Mi riferisco agli accordi per la concessione
della Autonomia al Veneto. Il mainstream ha sempre trattato l’argomento con
sufficienza strumentale presentando il venetismo come un maldipancia brontolone
invece di un problema identitario. Si tratta di una cosa molto più seria: le
famiglie venete, nonostante due terribili guerre mondiali, dopo più di un secolo
e mezzo dalla annessione al Regno d’Italia si sentono ancora venete e sopportano
sempre meno lo sperpero romanocentrico. Ora, all’interno di questo sentimento
diffuso cresce e si consolida da decenni una minoritaria aspirazione
secessionista. Essa viene nascosta dal mainstream e dietro a questa rimozione
si cela uno dei veri segreti della repubblica ovvero il fatto che in un
contesto sovranazionale, cioè extra-costituzionale, essa potrebbe risultare
fondata. Qui il discorso si complica, ma per il momento è chiaro che se il
progetto di autonomia in corso di elaborazione dovesse far cilecca il venetismo
secessionista si rafforzerebbe notevolmente. Una vera politica di coesione
passa quindi attraverso una vera autonomia e questo non è chiaro neanche alle
attuali forze di governo.
Finora su tutto questo c’è solo melina e non si capisce se l’autonomia,
anche in termini di autogestione delle risorse, parte o no.
A tutt’oggi il mainstream cerca di ingigantire le apparenti
contrapposizioni su aspetti di programma nel tentativo di appesantire il
rapporto tra vertice e base nelle forze di governo, ma inutilmente: la
leadership, soprattutto per la componente leghista è salda. Ne è un esempio la
TAV che viene usata come preteso per proporre un referendum (con apposita
legiferazione) che aggreghi il nord sulla posizione di centrodestra. In caso di
successo di questa manovra le istanze venetiste verrebbero ancora una volta
diluite in una fanfaronica idea di “Nord”.
Sono quindi curioso di capire se Zaia accetterà di usare gli
annunci della autonomia regionale per sottrarre il nord (le regioni che ci
stanno) dai vincoli del Contratto di governo e puntare così all’agognata
riaggregazione del centrodestra emarginando i cinquestelli nella prossima
tornata elettorale. E ciò varrebbe sia sul piano europeo che amministrativo.
Buonanno alla politica, buonanno agli italiani.