L’edizione Internazionale del New York Time oggi recensisce un nuovo libro sulla storia del conflitto israelo palestinese.
E’ un libro illustrato, di 600 pagine, scritto e curato da
Ian Black che esce con l’edizione delle Atlatic Montly Press. Si intitola Enemies and Neighbors: Arabs and Jews in
Palestine and Israel, 1917-2017. Esso tratta della relazione tra sionismo e
nazionalismo palestinese, inconciliabili fin dall’inizio, ma non privi di interazioni.
Le interazioni che trovo però descritte nella recensione sono tese ad
evidenziare solo gli sforzi israeliani e temo pertanto che il libro rilanci
solo un forte scetticismo nel confronti di ogni possibilità di dialogo.
Sin dalla prima immigrazione sionista gli ebrei si sono
relazionati con i labouristi palestinesi cercando aiuto per la costruzione
dello Stato. Ma hanno incontrato solo opposizione, dice l’autore. E porta esempi
di come i lavoratori palestinesi abbiano sempre beneficiato di occasioni di
lavoro dalle imprese ebraiche. Nel 1889 ad esempio uno dei primi insediamenti
agricoli impiegava 200 ebrei e 1400 palestinesi e ancora cento anni dopo,
quando la striscia di Gaza era già stata occupata con la guerra dei sei giorni,
in quei villaggi si trovavano palestinesi che affermavano di voler connettersi
con Israele per avere opportunità di lavoro.
Fin dall’inizio, scrive Black, i sionisti baipassavano i palestinesi
cercando altri interlocutori arabi meno ostili alle loro ambizioni statuali.
Nel 1919 Emir Faisal (arabo saudita) firmò un accordo con Chaim Weizmann
auspicando ulteriore immigrazione in Palestina. I due cercavano reciproco supporto per i propri
obiettivi interni ed era un secolo fa, ma il fatto che venga ricordato mi
richiama lo scenario attuale in cui si profila una cointeressenza diplomatica
tra Arabia Saudita e Israele contro l'Iran e la Siria.
Anche oggi Netanyahu cerca l’appoggio saudita
per ridimensionare il nazionalismo palestinese.
Durante quella che lui definisce la “guerra di indipendenza “di
Israele una Golda Meir ancora agli inizi girava il vicinato e parlava alle famiglie
arabe. Poi altri esempi mettono in evidenza la bontà d’animo di Moshe Dayan mentre
invece i leaders palestinesi armavano la propria causa. E via di questo passo.
Il tutto conduce Black alla conclusione che, considerata l’inaffidabilità
palestinese, cresce sempre più la convinzione che la soluzione sui due popoli
due stati sia ormai defunta. Egli non offre una visione di progresso e non esprime
speranza. E il finale del libro, ci ricorda sempre la recensione, tende
apertamente per la tesi secondo la quale non sarebbe più ipotizzabile alcuna
finale per quel conflitto. E non ci sarebbe da stupirsi se gli americano, già
pieni di problemi, cambiassero idea.
In pratica questa recensione, firmata Peter Beinart, sintetizza
le seicento pagine di Black in una opzione di sostegno alla politica di Trump
per il medio oriente. Mai dire mai.
Il NYT era ossessivamente ostile al nuovo
presidente e non può cambiare linea dall’oggi al domani. Può però prenderla
alla larga e cominciare a preparare i propri lettori. Ecco il messaggio di questa
recensione.
------------------------
Principio di Shaw:
“Fai un programma che anche un idiota può
usare,
e vedrai che soltanto un idiota
vorrà usarlo”.
Nessun commento:
Posta un commento