Il 13 settembre dell’anno 1969 al centro di Padova cadde
dalla tromba delle scale ALBERTO MURARO. Costui era il custode del condominio
di Piazza insurrezione 15. Ma soprattutto era un testimone decisivo in una inchiesta
in corso sul terrorismo di destra.
Subito dopo la morte il corpo di Muraro era stato fotografato da un
operatore dilettante e tali foto permettono ancor oggi di verificare che non
combaciano con quelle ufficiali.
L’eliminazione sotto forma di incidente coincide con l’obiettivo
dell’Ufficio Affari Riservati che doveva proteggere Massimiliano Fachini, membro
della organizzazione golpista Ordine Nuovo, dall'indagine del commissario di polizia
Pasquale Juliano che era giunto a due passi dalla verità. Ma il Fachini, che
era figlio dell’ex questore di Verona durante la Repubblica di Salò, in quel periodo
doveva restare libero perché era il custode di un NASCO (nascondiglio top
secret di armi ed esplosivi Gladio) in una grotta sui colli. L’accesso a tale
luogo era protetto da un congegno auto-esplodente disinnescabile solo con
procedimento riservato. La cellula di Ordine Nuovo era gestita dai servizi
segreti militari attraverso Giannettini.
L’ordinovista Mauro Meli, che agì anche da infiltrato tra
gli anarchici, confidò molti anni dopo alla propria moglie di “aver ucciso un
portinaio buttandolo giù dalle scale”. La moglie ebbe modo di testimoniarlo in
alcune circostanze legate all’inchiesta del giudice Salvini.
Il commissario Juliano fu oggetto di vari procedimenti repressivi
e confinamento a Matera. Ci vollero dieci anni e cinque processi per vedere riconosciuta
la fondatezza della sua inchiesta. Ed è oggi realistico ritenere che se la sua
inchiesta fosse stata lasciata procedere senza intoppi non ci sarebbe stata
Piazza Fontana. Contro di lui, facendo nome e cognome, nel dicembre 1969 era
stato stampato dall’editore Ventura un libello a copertina rossa con
la frase di Lao Tze :” la giustizia è come il timone, dove la giri, va”.
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