Il 20 settembre 1915 Attilio Frescura annota nel suo diario
la partenza di Gabriele D’Annunzio dal suo campo per una missione di sorvolo su
Trento. Egli ammira il suo coraggio e racconta il grande onore di essere stato
da lui, il vate, ricevuto al rientro dal volo, nella sua camera d’albergo.
Il Poeta gli parla, lui lo osserva, e il volto di colui che
seppe raffigurare nel Piacere il tizzone ardente della sua giovinezza
romana gli si imprime nell’anima.
“Dicono che dovrò
averne il rimorso (per aver tanto predicato la guerra) … ma sono sicuro - dice il vate - che l’Italia vincerà, e se
anche non vincesse, avrà vinto; la guerra era necessaria perché la nazione non
morisse”. Dice il Poeta e, dopo il racconto del sorvolo, gli lascia un
autografo.
I due sono colleghi, entrambi tenenti, perché D’Annunzio,
nonostante l’età, è tenente dei “bianchi
lanceri di Novara”.
E gli scrive:
“Il pericolo è l‘asse della vita
sublime”.
Quest’ultima parola mal si addice al mostruoso lutto che sta
arrivando. Essa significa altissimo (e ciò potrebbe starci con il volo in
aeroplano solo se inteso in senso geografico), celeste, divino, eccelso,
eminente, etereo, grande, illustre, paradisiaco, sommo, sovrano, splendido,
trascendentale, soprannaturale. Ma non uno di tali sinonimi si adatta al
contesto di morte, dolore, sofferenza del quale i due sono “tenenti”. E basta
da sola a dirci quanto quest’uomo, vate di vuota retorica, fosse staccato dalla
realtà incombente.
Ma ancora più grave è la frase citata da Frescura: la guerra era necessaria perché la nazione
non morisse, essa mostra solo l’estremo cinismo sul quale era stato
costruito il messaggio interventista. Un tipo di pensiero, questo cinismo,
destinato ad accompagnaci per un altro mezzo secolo.
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D'Annunzio, scrive Aldo Cazzullo (La guerra dei nostri nonni, pg 88) aveva una predilezione per le imprese inutili e le morti dolorose. E a titolo esemplificativo ci narra l'episodio del castello di Duino, sul Timavo.
Le truppe italiane non arrivavano a Trieste e il vate pensò un'azione di falsa bandiera. Essa serviva a far credere ai triestini che gli italiani erano già in arrivo a meno di venti km. In reatà la fortezza era imprendibile e non avrebbe comunque assicurato la resa di Trieste. Il Maggiore Randaccio, che comandava le operazioni, si oppose quindi al piano del vate. Ma costui lo scavalcò facendosi dare l'autorizzazione dal Duca d'Aosta. e il 28 Maggio del 1917, di notte, i nostri marciavano al Timavo dietro la bandiera del vate.
La sorpresa favorì un primo gruppo che riuscì a passare e mettersi al riparo, ora si trattava di passare uno alla volta sulla passerella sotto il fuoco nemico che abbatte sistematicamente ogni passante. Randaccio sospese l'operazione ma venne ferito a morte, il vate in pieno delirio, ordinò, inascoltato, di aprire il fuoco sui fanti arresi dall'altra parte del fiume.
L'azione non si compì, Randaccio morì e si tennero le esequie. il D'Aosta incaricò D'Annunzio di scrivere l'orazione funebre.
Costui, sempre in pieno delirio poetico, rivelò che non porse il veleno che avrebbe risparmiato il dolore mortale al Maggiore perchè:" era necessario che soffrisse, affinchè la sua vita potesse diventare SUBLIME nell'immotalità della morte".
Il Duca D'Aosta, allucinato dalla bellezza di tali versi, fece distribuire l'orazione tra i suoi uomini. Con il risultato che:
"Il giorno dopo 800 tra fanti e ufficiali si arresero agli austriaci sul Timavo, nel vedere che le loro vite venivano gettate via in quella maniera". (pg 89)