Il quindicennio reaganiano, iniziato quando Tracy Chapman
cantava “poor people gonna rise
up and get their share…”, e conclusosi con Celine Dion che cantava “All by myself” (1996) ha sepolto
- transitoriamente – la cultura della solidarietà e della contrattazione
collettiva. Il risultato è che oggi i giovanotti alla Renzi considerano il
demansionamento come qualcosa di utile al rilancio dell’economia.
L’idea che il rapporto di lavoro sia un contratto, un
qualcosa di natura pattizia e non una relazione di asservimento, viene messa in
ombra in favore del mito della libertà imprenditoriale. Libera volpe in libero
pollaio. Si prescinde dal valutare i rapporti di forza tra le parti di tale
contratto e si dimentica la salvaguardia del valore di ciò che il contraente debole
(il lavoratore) apporta all’impresa: la propria professionalità.
In un patto di
assunzione deve essere chiaro che il lavoratore andrà adibito alle mansioni per
le quali viene assunto e solo se tali mansioni scompaiono, ad esempio a causa
di innovazione tecnologica come la dattilografa dopo l’arrivo del word
processor, si giustifica una eventuale ridiscussione dei termini.
Se l‘impresa non ha più bisogno di una certa professionalità
si entra in una situazione in cui l’ipotesi di rescissione del rapporto trova
un giustificato motivo, e pertanto entrambe le parti potrebbero essere
interessate a ricostituire il rapporto sulla base di un nuovo inquadramento, ma
l’idea di reinquadrare (in peius of course) il lavoratore a parità di
professionalità richiesta è un’aberrazione.
Riporta infatti ad una concezione
preindustriale del rapporto di lavoro, nella quale il bracciante veniva assunto
perché, appunto, aveva le braccia e non perché sapeva usare un attrezzo o un
macchinario.
Quarant’anni fa, ai tempi in cui facevo il turno di notte e
mangiavo durante la pausa nella pignatta riscaldata, lessi – avidamente ricordo
– Le condizioni della classe operaia
inglese, di Carletto Marx e Federico Engels e capii che ciò che facevo
aveva un valore e che, per quanto povera, la mia mansione mi dava la dignità che
meritavo. A quel tempo non occorreva saper contar balle per valere, bastava
capire che io e quello che firma la mia busta paga siamo uguali davanti alla
legge.
Ora da qualche mese in Italia qualche giovanotto cresciuto
davanti alla televisione senza mai dover riscaldare la pignatta, ha pensato che
per rilancare il PIL bastasse togliere proprio l’uguaglianza fingendo di non
capire che così si finisce per togliere la dignità. E le imprese dove non c’è
la dignità di chi ci lavora non funzionano.
Cancelliamo quindi, per carità, quella norma del Jobs Act che
legittima il demansionamento e ripristiniamo la preesistente formulazione del
Codice Civile (art 2103) sotto la cui giurisdizione la dignità di milioni di
lavoratori è stata difesa per tanti decenni.
E quando l’avremo fatto regaliamo a renzuschino quel libro che mostra in quali condizioni si può finire quando si affida la discrezionalità totale all’imprenditore facendo di lui l’unico padrone del rapporto di lavoro.
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