Mi
appunto una breve lettura stimolante su un altrettanto stimolante tema di attualità.
Sette giorni
prima della festa del tricolore, che si celebra sulla base di una legge dl
1996, il Giornale di Vicenza ha pubblicato nella rubrica Lettere al Direttore un intervento di Ettore Beggiato. Si tratta di
un ricordo dello studioso, nonché preside universitario Sabino Acquaviva ad un
anno dalla morte. E’ il tema ivi trattato a rendere interessante l’articolo: l’insegnamento
della lingua veneta.
Sostenere
che la lingua veneta non esiste perché vi sono differenze tra una città e l’altra
è come ignorare il processo di formazione, la koinè, del Greco antico, dice
Acquaviva, un processo di unificazione di dialetti diversi che diede origine ad
una civiltà millenaria. Nel caso greco la originaria diversità linguistica non ostacolò
la formazione di una identità unitaria. Anzi quando arrivò il dominio romano
quell’identità culturale e linguistica si trasformò in una unificazione
politica che permise ad uno stato greco unitario di vivere fino alla conquista
turca di Costantinopoli. Cioè altri mille anni.
Inoltre
gli argomenti che negano l’esistenza di un popolo veneto sono gli stessi che
potrebbero essere usati per negare l’esistenza stessa di molti altri popoli con
identità propria. “Non so se i veneti si
siano mai sentiti di essere un popolo, ma sono convinto che lo fossero”, dice
sempre Acquaviva, e il fatto che vi fossero condizioni di miseria tra le
campagne non è molto diverso dalla storia della Catalogna, della Baviera o
della Provenza.
L’Europa
stessa necessita di una coinè linguistica che ridimensioni quei nazionalismi
otto-novecenteschi che hanno devastato le culture regionali costringendo inoltre
i popoli a versare tanto sangue.
C’è
anche un interessante aneddoto, particolarmente significativo, che voglio
riportare per non perderlo tra le mie prossime letture. Nel 1941 i soldati
italiani occuparono la Dalmazia, suo padre era tra questi e racconta che al
ristorante nessuno comprendeva l’italiano, ma quando invece di chiedere “una forchetta” venne chiesto “un piron” il cameriere seppe subito cosa
portare. In quel momento “tutti i presenti
percepirono l’unità linguistica dei veneti con i dalmati di allora”.
L’articolo
di Acquaviva infine, che chiede l’insegnamento della lingua veneta nelle scuole,
conclude ricordando che Il sogno di una
Europa unita può realizzarsi solo nel nome dei popoli che la compongono.
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La
redazione del G.diVi. non vive tra le nuvole e sa bene che non si tratta di
farfugli ma di una questione presente da decenni nel dibattito veneto. Tuttavia
relega questo articolo nella rubrica delle lettere al direttore. E’ indicativo
dell’atteggiamento di ipocrisia dominante. Con le banche che falliscono
ingannando e derubando il popolo, col terrorismo e la disoccupazione che
incalzano si preferisce sottovalutare il problema per esorcizzarlo.
Il
fatto di parlare in veneto nelle varie sedi, comprese quelle istituzionali come
ad esempio il Consiglio Comunale, costituisce una questione da tempo attuale. E
l’emergere del venetismo non va confuso o anche semplicemente ricondotto alla
provocazione di quelli che hanno assaltato il campanile di San Marco. E’ l’inutile
perbenismo politically correct che tratta il problema come un capriccio folcloristico,
ma intanto il tema avanza sempre più. Anche Grillo era considerato dieci anni
fa un fenomeno da baraccone, ma ora è in Paramento con nove milioni di voti.
Anche Berlusconi nel 1993 fu guardato dal PDS come un vento passeggero dell’antipolitica.
E molte redazioni, prefetture e Organizzazioni della Rappresentanza sanno bene
che questi sono errori che si pagano.
Ma non
vogliono disturbare il manovratore romano e fingono di ignorare che
chi pissa contro vento, se bagna la camisa.
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