martedì 20 agosto 2019

Exodus: i migranti buoni









Durante l'estate del 1962 nello Juke Box della Piscina Lido (quella scoperta) spopolava ancora una melodia orchestrale dal sapore intenso e drammatico che mi faceva sognare e rimpiangere sogni infantili. Quella musica era Exous di Ernest Gold famosa come colonna sonora del film omonimo uscito l’anno precedente.

Il film aveva riproposto Paul Newman come modello di bellezza maschile ma soprattutto presentava Israele. Questa parola in noi evocava soltanto qualche imprecisa reminiscenza biblica ma il film, alquanto didascalico, la cui sceneggiatura riprendeva un romanzo del 1947 che era servito a sostenere la nascita dell’omonimo Stato, era netto: Until I die this land is mine. Con esso le comunità filo israeliane facevano circolare tra gli ambienti della diaspora un messaggio di combattimento per quella terra.

Un irrefrenabile moto sodale pervase l’animo della mia generazione.

Occorre osservare che ogni sentimento filo ebraico che, guai dimenticare, era stato assente e anche dolorosamente rimosso dalle menti dei nostri padri, si diffondeva in quei mesi nei nostri cuori tanto velocemente quanto acriticamente difronte agli occhi di Paul Newman e alla voce di Pat Boone.
Quelle note e quelle parole riproposte varie volte in un ritornello “espressivo e doloroso”, tracciarono la linea dello schieramento: gli ebrei sono i buoni e i nazisti i cattivi. E i nostri genitori probabilmente si vergognavano. I miei non sapevano cos’era successo, mio padre era stato prigioniero in un’isola greca in attesa di una liberazione dagli alleati tedeschi, ma quando vide finalmente gli stukas bombardare l’isola si chiese perché mitragliassero anche i soldati che portavano la divisa italiana. 

Lo capi solo quando ritornò a Valdagno e vide i suoi amici più giovani nascondersi sui monti scappando proprio dai tedeschi e dalle brigate nere. Ma degli ebrei non mi aveva mai parlato. Non sapeva niente. Neanche mia mamma che aveva studiato un po’ più di lui; per lei gli ebrei erano quelli che avevano mandato a morte Gesù. Nent’altro.

Così il seme filoisraeliano nacque dentro di me; e germogliò durante quegli anni di scuola quando tutte le classi vennero portate a visitare la mostra sulla shoah organizzata nei locali del Centro Ricreativo per Assistenza dei Lavoratori Marzotto. Immagini agghiaccianti in bianco e nero, coi prigionieri seminudi e scheletriti venivano mostrate a giovani impreparati. Ma servivano a capire il processo e l’impiccagione di Eichmann.

Quel seme era scora vivo quando la mia generazione cominciò a chiedersi nei primi anni settanta cos’era l’OLP e chi fosse Arafat, ma solo chi fu disposto a “diventare comunista” cominciò a chiedersi come mai nel film Exodus, che aveva visto dieci anni prima, la causa palestinese fosse assente. In quel film di grande successo infatti ciò che risultava inesistente come popolo, ovvero il palestinese, era stato ridotto a qualche comparsa di second’ordine.

Allo stesso modo oggi nessuno ricorda quel film; rimosso per i suoi significati oggi scomodi.

Exodus infatti era una nave di migranti che volevano approdare in una terra il cui governo di allora, provveditorato britannico, non voleva. Ma quella sera al cinema Rivoli tutti applaudimmo quando gli ebrei sbarcarono. Anche quelli che oggi applaudono Salvini quando nega la medesima cosa agli africani.


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                                                       Rem tene,
                                                                   verba sequentur. – Suum cuique 






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