domenica 20 settembre 2015

WW1: Frescura e la sublime vacuità dannunziana






   



Il 20 settembre 1915 Attilio Frescura annota nel suo diario la partenza di Gabriele D’Annunzio dal suo campo per una missione di sorvolo su Trento. Egli ammira il suo coraggio e racconta il grande onore di essere stato da lui, il vate, ricevuto al rientro dal volo, nella sua camera d’albergo.

Il Poeta gli parla, lui lo osserva, e il volto di colui che seppe raffigurare nel Piacere il tizzone ardente della sua giovinezza romana gli si imprime nell’anima.
Dicono che dovrò averne il rimorso (per aver tanto predicato la guerra) …  ma sono sicuro - dice il vate -  che l’Italia vincerà, e se anche non vincesse, avrà vinto; la guerra era necessaria perché la nazione non morisse”. Dice il Poeta e, dopo il racconto del sorvolo, gli lascia un autografo.


I due sono colleghi, entrambi tenenti, perché D’Annunzio, nonostante l’età, è tenente dei “bianchi lanceri di Novara”. 

E gli scrive: 

                                     “Il pericolo è l‘asse della vita sublime”.


Quest’ultima parola mal si addice al mostruoso lutto che sta arrivando. Essa significa altissimo (e ciò potrebbe starci con il volo in aeroplano solo se inteso in senso geografico), celeste, divino, eccelso, eminente, etereo, grande, illustre, paradisiaco, sommo, sovrano, splendido, trascendentale, soprannaturale. Ma non uno di tali sinonimi si adatta al contesto di morte, dolore, sofferenza del quale i due sono “tenenti”. E basta da sola a dirci quanto quest’uomo, vate di vuota retorica, fosse staccato dalla realtà incombente.

Ma ancora più grave è la frase citata da Frescura: la guerra era necessaria perché la nazione non morisse, essa mostra solo l’estremo cinismo sul quale era stato costruito il messaggio interventista. Un tipo di pensiero, questo cinismo, destinato ad accompagnaci per un altro mezzo secolo.


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D'Annunzio, scrive Aldo Cazzullo (La guerra dei nostri nonni, pg 88) aveva una predilezione per le imprese inutili e le morti dolorose. E a titolo esemplificativo ci narra l'episodio del castello di Duino, sul Timavo.

Le truppe italiane non arrivavano a Trieste e il vate pensò un'azione di falsa bandiera. Essa serviva a far credere ai triestini che gli italiani erano già in arrivo a meno di venti km.  In reatà la fortezza era imprendibile e non avrebbe comunque assicurato la resa di Trieste. Il Maggiore Randaccio, che comandava le operazioni, si oppose quindi al piano del vate. Ma costui lo scavalcò facendosi dare l'autorizzazione dal Duca d'Aosta. e il 28 Maggio del 1917, di notte, i nostri marciavano al Timavo dietro la bandiera del vate. 
La sorpresa favorì un primo gruppo che riuscì a passare e mettersi al riparo,  ora si trattava di passare uno alla volta sulla passerella sotto il fuoco nemico che abbatte sistematicamente ogni passante. Randaccio sospese l'operazione ma venne ferito a morte, il vate in pieno delirio, ordinò, inascoltato, di aprire il fuoco sui fanti arresi dall'altra parte del fiume.

L'azione non si compì, Randaccio morì e si tennero le esequie. il D'Aosta incaricò D'Annunzio di scrivere l'orazione funebre.

Costui, sempre in pieno delirio poetico, rivelò che non porse il veleno che avrebbe risparmiato il dolore mortale al Maggiore perchè:" era necessario che soffrisse, affinchè la sua vita potesse diventare SUBLIME nell'immotalità della morte".

Il Duca D'Aosta, allucinato dalla bellezza di tali versi, fece distribuire l'orazione tra i suoi uomini. Con il risultato che:


"Il giorno dopo 800 tra fanti e ufficiali si arresero agli austriaci sul Timavo, nel vedere che le loro vite venivano gettate via in quella maniera". (pg 89)








giovedì 17 settembre 2015

WW1: parole del fronte







Sempre facendo riferimento al diario di Frescura, cento anni fa sull'Altopiano in questi giorni non c'erano le battaglie terribili che si svolgevano sul Carso e l'umore della truppa era ancora caratterizzato dalla llusione che entro la fine dell'anno la guerra sarebbe finita e sarebbe stata vinta con onore.

Frescura in queste settimane raccoglie varie scritte che trova sul legno delle baracche, sugli alberi o versi che vengono scritti sulle lettere. Eccone alcune:



"Viva il 1986 classe di ferro ch'è vincitore su queste terre!"

"Come vecchi fantaccini abbiamo fatto anche da alpini, scavalcando monti e collina alla vittoria si avvicina" (Questo evidentemente era un fante)

"Alla mattina alzati in piè, allor che portan caldo il caffè ecco che viene il reoplan di Cecco Beppe, porco di un can!" (Si riferisce alle sistematiche ricognizioni eree austriache)

"Romba il cannone nel silenzio altero
di minuto in minuto ammonitore
s'alza e si abbassa con bel fare altero, sotto la mano dell'inclinatore..." (Qui Frescura annota trattarsi di un artigliere)

"Quando il 305 scoppia sui sassi fa tanto rmore che rompe i timpani più bassi!"

"Quando il cannone è in movimento se non muore dalle palle muore di spavento!"


 Scrivere comunque non è sempre facile:

"Quando si è in guerra è un affar mostro
quando ho la carta mi manca l'inchiostro e quando ho l'nchiostro mi manca la carta
e quando ci ho tutto bisogna che parta."


e nelle lettere, che non sono ancora tragiche, non manca l'amore ispirato:

"Quando verrò in congedo, o cara,
i nostri sospiri saran la fanfara
e senza tanta disciplina
andremo a dormire la sera per alzarsi la mattina
e passando grado come tutti i marità:
tu col grado di mamma e io di papà!"


"Altro cara non ti scrivo,
solo ti bacio il viso e la cintura,
più non ti dico per il motivo
che c'è tanto di censura!"


Sono versi "naiv" che oscllano tra l'ironia e la retorica. Sono anche ottimistici, versi scritti da soldati che sperano fiduciosi ma che ben presto vireranno nel segno tragico della morte e della totale sfiducia.

Fino alle parole di Ungaretti:

"Cessate d'uccdere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
Hanno l'impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell'erba
lieta dove non passa l'uomo.






mercoledì 16 settembre 2015

WW3: passaggio delicato in Siria




Oggi è Mercoledì.

Martedì il Presidente Putin ha energicamente difeso l’assistenza militare alla Siria, descrivendola come un aiuto ad un governo che lotta contro una aggressione terroristica e sostenendo che la crisi migratoria in Europa sarebbe molto più pesante senza di esso.

Penso che sia vero. Senza il presidio di Assad quella storica parte del mondo diventerebbe un far west nello scontro tra interessi contrapposti tra sauditi, qwaitiani e Iraniani… Un po’ quello che, con altri soggetti, sta avvenendo nella Libia post Geddafy.


Ma riprendiamo i discorsi di Putin. E facciamo riferimento alla corrispondenza da Mosca dell’International New York Times di oggi (pg 5)


Le caute ma chiare parole di Putin qui riportate seguono a quelle degli Stati Uniti che avevano espresso preoccupazione circa il recente ponte aereo russo verso la Siria, ritenendo che esso includa militari e apparecchiature strategiche.

Il sostegno fornito dalla Russia al governo del Presidente Bashar al Assad in questi quattro anni e mezzo di guerra civile è quindi diventato un nuovo punto di frizione che si aggiunge alle attuali difficoltà di relazione Russia – USA.

La Russia pare interessata ad accrescere la propria influenza in Siria nel quadro della guerra civile, ma “Se la Russia non avesse aiutato la Siria la situazione sarebbe diventata peggiore di quella libica – ha detto Putin – e il flusso di rifugiati sarebbe stato più alto”.


Mi pare un discorso chiaro ed attendibile, ma i nostri insistono a considerarla una minaccia militare:
“Fonti del Pentagono affermano che la Russia ha spedito alcuni dei più moderni battle tanks nei campi di battaglia come Latakia, vicini alla residenza di Assad. Questo per fare dell’area una base di partenza dei prossimi strikes aerei filogovernativi.”

Parlando a Dushanbe, capitale del Tagikistan durante una conferenza sulla sicurezza regionale, Putin, con riferimento alla Siria, ha spresso il concetto che: stiamo valutando varie opzioni, ma è improbabile una guerra locale con truppe nostre, (anche mascherate) perché (laggiù in Siria) noi non ci limitiamo solo a distinguerci, noi siamo veri e propri alieni.


Se confrontiamo questa corrispondenza da Mosca, di A.E. Kramer, con il silenzio del Giornale di Vicenza (che è, non dimentichiamolo, una importante fonte a Langley) e le inutili interviste a funzionari della nostra politica estera che appaiono sul Fatto Quotidiano (Zunini), ci rendiamo conto che l’Italia in questa partita non c’è. C’è solo un allineato silenzio dell’esthablisment. Perché?

O abbiamo delegato tutto ai partner NATO oppure teniamo tutto quieto nella speranza che non si veda il doppio gioco che stiamo facendo tra Putin e Kerry.

Il presidente della Repubblica in queste ore è a colloquio con Merkel… stiamo aspettando la linea?

Oppure, molto più caserecciamente, stiamo affidando a Berlusconi, e ai suoi interessi privati, la nostra politica estera in cambio dell’appoggio non dichiarato a renzuschino?







lunedì 14 settembre 2015

Sesto quesito: tutela del lavoratore, esclusione del demansionamento






Il quindicennio reaganiano, iniziato quando Tracy Chapman cantava “poor people gonna rise up and get their share…”, e conclusosi con Celine Dion che cantava “All by myself” (1996) ha sepolto - transitoriamente – la cultura della solidarietà e della contrattazione collettiva. Il risultato è che oggi i giovanotti alla Renzi considerano il demansionamento come qualcosa di utile al rilancio dell’economia.


L’idea che il rapporto di lavoro sia un contratto, un qualcosa di natura pattizia e non una relazione di asservimento, viene messa in ombra in favore del mito della libertà imprenditoriale. Libera volpe in libero pollaio. Si prescinde dal valutare i rapporti di forza tra le parti di tale contratto e si dimentica la salvaguardia del valore di ciò che il contraente debole (il lavoratore) apporta all’impresa: la propria professionalità. 

In un patto di assunzione deve essere chiaro che il lavoratore andrà adibito alle mansioni per le quali viene assunto e solo se tali mansioni scompaiono, ad esempio a causa di innovazione tecnologica come la dattilografa dopo l’arrivo del word processor, si giustifica una eventuale ridiscussione dei termini.


Se l‘impresa non ha più bisogno di una certa professionalità si entra in una situazione in cui l’ipotesi di rescissione del rapporto trova un giustificato motivo, e pertanto entrambe le parti potrebbero essere interessate a ricostituire il rapporto sulla base di un nuovo inquadramento, ma l’idea di reinquadrare (in peius of course) il lavoratore a parità di professionalità richiesta è un’aberrazione. 

Riporta infatti ad una concezione preindustriale del rapporto di lavoro, nella quale il bracciante veniva assunto perché, appunto, aveva le braccia e non perché sapeva usare un attrezzo o un macchinario.



Quarant’anni fa, ai tempi in cui facevo il turno di notte e mangiavo durante la pausa nella pignatta riscaldata, lessi – avidamente ricordo – Le condizioni della classe operaia inglese, di Carletto Marx e Federico Engels e capii che ciò che facevo aveva un valore e che, per quanto povera, la mia mansione mi dava la dignità che meritavo. A quel tempo non occorreva saper contar balle per valere, bastava capire che io e quello che firma la mia busta paga siamo uguali davanti alla legge.



Ora da qualche mese in Italia qualche giovanotto cresciuto davanti alla televisione senza mai dover riscaldare la pignatta, ha pensato che per rilancare il PIL bastasse togliere proprio l’uguaglianza fingendo di non capire che così si finisce per togliere la dignità. E le imprese dove non c’è la dignità di chi ci lavora non funzionano.


Cancelliamo quindi, per carità, quella norma del Jobs Act che legittima il demansionamento e ripristiniamo la preesistente formulazione del Codice Civile (art 2103) sotto la cui giurisdizione la dignità di milioni di lavoratori è stata difesa per tanti decenni.




E quando l’avremo fatto regaliamo a renzuschino quel libro che mostra in quali condizioni si può finire quando si affida la discrezionalità totale all’imprenditore facendo di lui l’unico padrone del rapporto di lavoro.













domenica 13 settembre 2015

WW2: Resistenza, memoria senza assoluzioni




E’ il titolo di un commento di Gianni Oliva, autore di varie ricerche storiche tra cui la recente “il tesoro dei vinti” 




che condivido integralmente.


In sintesi Oliva fa il punto sulle celebrazioni del settantesimo della Resistenza. Modesto bilancio e modesta visibilità, conclude, soprattutto in confronto al Centenario WW1.  La memoria, dice, si va esaurendo perché dura lo spazio di una generazione. Quando scompaiono i protagonisti scompare anche la narrazione popolare. Oggi il ricordo dell’11 Settembre comincia a superare quello dell’8 Settembre anche nelle famiglie.
Ma il venir meno della “memoria” non fa venire meno la “storia” e su questo piano i nodi restano. Occorrono quindi indagini senza velleità celebrative e occorre chiedersi – onestamente direi – perché la vulgata è sopravvissuta così a lungo.
Dopo il ’45 ci siamo immaginati come un popolo di vincitori mentre eravamo un popolo di sconfitti che aveva scatenato la guerra accanto ad Hitler. E per rimuovere il senso di colpa abbiamo fatto dell’8 Settembre la cesura tra due italie narrando la Resistenza come un alibi assolutorio: la storia precedente l’armistizio è stata rimossa e il territorio peninsulare narrato è stato ristretto al Centro Nord partigiano.
Così abbiamo perso per strada la corresponsabilità della classe dirigente col fascismo, la guerra di aggressione ’40 – ’43, i crimini contro i civili nei Balcani e in Grecia.
Insomma non abbiamo fatto i conti con la nostra storia e la proposta celebrativa si è rivelata sterile. Ma bisogna proprio ripartire perché:

La risposta a tanti dubbi sull’approssimazione morale dell’oggi sta anche nelle assoluzioni troppo facili di ieri.

E bravo Gianni Oliva.









venerdì 11 settembre 2015

Ground Zero, il Pirellone e l'inside job




L’11 Settembre ha impressionato profondamente il mondo moderno. 

Fu il punto più alto di comunicazione televisiva. 
Dei vari attentati che si sono svolti quel giorno negli Stati Uniti il momento topico che rimane nella mente dei telespettatori è quello del secondo aereo che si infrange sulla torre e, soprattutto, la caduta progressiva, ordinata degli edifici su se stessi.
Direi che è soprattutto quest’ultima sequenza a rappresentarlo, e anche se si tratta di una palese, evidente, demolizione controllata ci piace continuare a spiegarlo con Bin Laden.

L’11/9 di Luigi Fasulo.
Dopo tredici anni pochi ricordano l’apprensione e la forte curiosità con la quale abbiamo affrontato la notizia dell’aereo di Luigi Fasulo schiantatosi contro il Pirellone. Erano passati sette mesi dallo schianto, ben più grave, degli aerei di linea dirottati sulle torri gemelle a New York. E credo che tutti gli spettatori, in tutto il mondo, abbiano subito associato il fatto di Milano con l’11 settembre.
La notizia infatti è stata data fin da subito dalla CNN: Plan hits Milan Skyscraper. Ma altrettanto immediatamente è stata accantonata in ossequio alle disposizioni antiterrorismo che impongono il ridimensionamento censoreo di ogni magnitudo per i fatti terroristici. Si teme di fare, informando, il gioco del nemico.
In termini di gestione del mainstream pertanto quell’episodio è stato trattato come un fatto terroristico mentre poi tutta la gestione è stata tesa a trattarlo come un incidente causato da un individuo psicolabile. E si è cercato di staccare nettamente ogni associazione di idee tra i due fatti.
Ma era terrorismo o incidente? Delle due l’una: se era terrorismo la gran parte delle spiegazioni fornite successivamente (suicidio o incidente causati da disperazione) erano balle e se non lo era è stato sbagliato il ridimensionamento della notizia. In entrambi i casi la lente deformante dei media ha ingannato inutilmente l’opinione pubblica.

 Ma il vero significato oggettivo di quel fatto è stato davanti agli occhi di tutti: un aereo che si schianta su un grattacelo non lo fa precipitare su se stesso. Esplode e distrugge solo localmente, punto e basta. In questo caso ha provocato la morte di tre persone e devastato il ventitreesimo piano del palazzo. Il giorno dopo i dipendenti con l’ufficio nei piani sottostanti hanno ripreso il lavoro al loro solito posto. Nessuna demolizione controllata. E il Pirellone è ancora là.








Perciò dopo quattordici anni i morti di Ground Zero potrebbero già essere onorati con la verità. Basterebbe volerlo. I morti si sono accumulati nella seconda fase, quella della caduta degli edifici perché in realtà l’aereo ha fatto pochi danni in proporzione al risultato finale. E la responsabilità è di chi ha ordinato la demolizione.


Oggi sappiamo dagli atti ufficiali che quei due tempi dell’intero attentato, schianto e caduta, non sono collegati da alcun nesso di causa. Sono due decisioni terroristiche collegate tra loro solo da un calcolo politico e probabilmente due decisioni prese da due centri di comando diversi e contrapposti. 

La caduta su se stesso dell’edificio non è conseguenza fisica dello schianto. Gli attentati in realtà furono due, due atti distinti e indipendenti. Il primo fu un attacco pianificato, il secondo una demolizione controllata che, sotto gli occhi emozionati del mondo intero, venne decisa alla luce di quanto stava accadendo. Un raddoppio. E non è per niente stupido ritenere che sia stato deliberatamente voluto per realizzare una sorta di golpe interno, un inside job del gruppo di potere Bush. Dopo quel giorno infatti si è aperta una strada nuova nelle politica dell’occidente, lo scontro petrolifero è stato mascherato da guerra al terrorismo e il collasso finanziario è stato rinviato di otto anni. Otto anni di guerre in Afghanistan ed Irak, guerre che oggi vengono considerate grossi errori dagli stessi dirigenti occidentali.



Ovviamente non ci sono ancora le condizioni comunicative per sostenerlo serenamente. Non c’è neanche l’interesse a farlo se non per soddisfare un tenue desiderio di verità. Ma è più sereno pensare che TUTTO l’attentato alle torri gemelle, e TUTTI quei morti vadano attribuiti alla malvagità dei terroristi di Al Qaeda. Ma che la versione ufficiale sull’11/ 9 sia un falso è stato dimostrato ed acquisito dagli atti ufficiali delle commissioni di indagine.


Siamo tutti davanti alla porta, è una porta a vetri opachi, sappiamo che di là c’è la verità, ma non vogliamo aprirla. Troppo scomodo, in fin dei conti chi ce lo fa fare?


 Lo faranno, speriamo, i nostri figli.






MAGNIFICAT, di John Rutter

  John Rutter è un direttore di coro e compositore contemporaneo di chiara fama e talento. La sua musica corale è accessibile, apprezzata ed...