sabato 27 gennaio 2018

Incidenti di pullman








Forse Torneremo Vivi”… Era lo slogan degli studenti per canzonare l’azienda del trasporto pubblico extraurbano della mia provincia. Una azienda ricca di storia, partecipata da Marzotto per il trasporto su rotaia della lana fin dentro dritto allo stabilimento di Valdagno. Poi, nei primi anni settanta, quando da decenni trasportava studenti e operai, venne ceduta interamente al settore pubblico, l’Ente Provincia e alcuni comuni, per sgravarsi delle perdite. La motivazione era legata al fatto che avendo essa una funzione sociale doveva essere scorporata dalla società di produzione laniera per permettere la normale ricerca del profitto in quanto società privata. 


Era il segnale localmente più significativo del nuovo corso marzottiano, e cioè un segnale chiaro per la comunità, la quale doveva prendere cognizione di essere difronte ad un’impresa che si voleva più attenta alla efficienza aziendale e meno condizionabile dalle necessità sociali. Il vecchio conte Gaetano, l’ultimo paternalista del secolo ventesimo, era morto nell’estate 1972. E verso il 1978 la dismissione di ogni trasporto su rotaia era completata in favore del servizio su gomma.


Agli inizi degli anni settanta quindi la società di trasporti assunse la denominazione di Società per l’Ammodernamento e la Gestione delle Ferrovie e Tramvie Vicentine, FTV appunto, successivamente SpA, dalla quale, aldilà delle battute, gli studenti, compresa mia figlia che l’ha utilizzata ogni giorno per cinque anni, sono sempre tornati vivi.


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Lo spunto per questa riflessione mi sovviene ripensando al fatto che un anno fa, il 27 gennaio 2017 a Noventa ha preso fuoco, bruciando alla grande, un pullman doppio della nuova società di trasporti, la SVT (Società Vicentina di Trasporti) che ha incorporato la vecchia FTV. Nessun ferito, ma segnale di grave stato e mancanza di sicurezza dei mezzi di trasporto.

                                          
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Il dubbio scaramantico di restare vivi o meno sui mezzi di trasporto pubblico non è dovuto a malafede o pessimismo, ma alla triste realtà dei fatti. Il più grave dei quali risale al 1956 quando sulla “strada dei Re”, ora dismessa, tra Campogrosso e Pian delle Fugazze precipitò nel vuoto un pullman tipo Leoncino determinando la morte di oltre quindici turisti. L’autista, il giovane Giuseppe Girotto, figlio dell’ex capo dei vigili di Valdagno, venne condannato a cinque anni e passa di prigione.



sabato 13 gennaio 2018

Fake news sessantottine










Il ’68 fu un anno importante per il lancio della globalizzazione comunicativa e comincia con una storica fake news. Il 2 Gennaio infatti veniva annunciata l’effettuazione con successo del primo trapianto cardiaco ad opera del chirurgo sudafricano Christian Barnard. Questo cardiochirurgo, che diventerà ben presto il più famoso del mondo, è un quarantacinquenne molto telegenico con un cognome e un nome altrettanto accattivanti per la cultura occidentale. Il sanbernardo infatti è un cane-simbolo del salvataggio vite in montagna mentre il nome evoca Cristo salvatore resuscitato.
In realtà oggi sappiamo che quello da lui realizzato era il secondo trapianto perché ce ne era stato un altro il 3 Dicembre precedente nella stessa clinica che aveva visto come donatrice la giovane venticinquenne Denise Darwall, morta in un incidente d’auto. Il suo giovane cuore aveva donato altri 18 giorni di vita perfettamente cosciente a Louis Washkansky, un emigrato ebreo lituano che viveva a Cape Town.

Perché non fu annunciato questo primo trapianto? Fu lo stesso Barbard a spiegarlo un decennio dopo: il medico che lo fece ERA NEGRO.


Si chiamava Hamilton Naki.




L’annuncio del 2 gennaio 1968 ebbe grande successo e scatenò da subito un dibattito, guidato dai media, tutto centrato sulla dimensione etica dell’evento. La rivista parigina Paris Mach ad esempio titolò la notizia “La battaglia del cuore. Hanno i medici tale diritto?” I termini di tale dibattito consistevano nel fatto che non esisteva all’epoca il concetto di morte cerebrale, mentre il cuore era universalmente concepito non come organo, ma come simbolo stesso della vita. Estrarre il cuore pulsante dal petto di una persona viva, sia pure con le funzioni cerebrali in default poteva essere visto come un atto che gli dava la morte. Una specie di omicidio insomma. E ciò poneva un serio problema etico sul potere decisionale dei medici.


Il governo sudafricano dell’epoca era quello dell’apartheid e aveva bisogno di credito internazionale per cui colse l’occasione per usare Barnard come ambasciatore di immagine. Lo lanciò coi propri media in interviste e conferenze intrappolandolo in uno schema comunicativo che tenesse nascoste le informazioni relative al trapianto precedente. La clinica ove erano avvenuti i trapianti aveva infatti, per non violare la legge sull’apartheid, tenuto nascosto il fatto che Naki fosse un medico facendolo risultare come giardiniere.



Nel 1978 la Royal College UK sistematizzò e definì ufficialmente il concetto di Breinstem Death rendendo così pienamente accettabile che si estraesse il cuore da una persona già morta cerebralmente. Il trapianto di cuore fu così accettato dalla comunità scientifica internazionale come pratica legittima dopo che l’opinione pubblica l’aveva già accettato eticamente. Inoltre il regime di apartheid era in via di superamento. Barnard iniziò a rivelare i dettagli e ringraziare Naki, ma la notizia non ebbe enfasi e riemerse solo in occasione della morte di Barnard nel 2001.




E’ uno dei tanti esempi di distonia della moderna comunicazione mediatica. Conta solo il primo annuncio. Ancor oggi nelle cronologie del sessantotto, seppur appena uscite dalla penna di ottimi giornalisti, si trova scritto che quello del 2 Gennaio è il primo trapianto di cuore e che è stato fatto da Banard. Tutto il dibattito etico di quegli anni si svolse alla luce di un primo annuncio truccato per interessi politici.





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Un mio piccolo tributo d'onore a Naki  e, con lui alle tante vittime di oblio ed emarginazione causate da fake news di stato.



mercoledì 10 gennaio 2018

WW3: prosegue la persuasione occulta








L’edizione Internazionale del New York Time oggi recensisce un nuovo libro sulla storia del conflitto israelo palestinese.
E’ un libro illustrato, di 600 pagine, scritto e curato da Ian Black che esce con l’edizione delle Atlatic Montly Press. Si intitola Enemies and Neighbors: Arabs and Jews in Palestine and Israel, 1917-2017. Esso tratta della relazione tra sionismo e nazionalismo palestinese, inconciliabili fin dall’inizio, ma non privi di interazioni. Le interazioni che trovo però descritte nella recensione sono tese ad evidenziare solo gli sforzi israeliani e temo pertanto che il libro rilanci solo un forte scetticismo nel confronti di ogni possibilità di dialogo.

Sin dalla prima immigrazione sionista gli ebrei si sono relazionati con i labouristi palestinesi cercando aiuto per la costruzione dello Stato. Ma hanno incontrato solo opposizione, dice l’autore. E porta esempi di come i lavoratori palestinesi abbiano sempre beneficiato di occasioni di lavoro dalle imprese ebraiche. Nel 1889 ad esempio uno dei primi insediamenti agricoli impiegava 200 ebrei e 1400 palestinesi e ancora cento anni dopo, quando la striscia di Gaza era già stata occupata con la guerra dei sei giorni, in quei villaggi si trovavano palestinesi che affermavano di voler connettersi con Israele per avere opportunità di lavoro.  Fin dall’inizio, scrive Black, i sionisti baipassavano i palestinesi cercando altri interlocutori arabi meno ostili alle loro ambizioni statuali. Nel 1919 Emir Faisal (arabo saudita) firmò un accordo con Chaim Weizmann auspicando ulteriore immigrazione in Palestina.  I due cercavano reciproco supporto per i propri obiettivi interni ed era un secolo fa, ma il fatto che venga ricordato mi richiama lo scenario attuale in cui si profila una cointeressenza diplomatica tra Arabia Saudita e Israele contro l'Iran e la Siria. 
Anche oggi Netanyahu cerca l’appoggio saudita per ridimensionare il nazionalismo palestinese.

Durante quella che lui definisce la “guerra di indipendenza “di Israele una Golda Meir ancora agli inizi girava il vicinato e parlava alle famiglie arabe. Poi altri esempi mettono in evidenza la bontà d’animo di Moshe Dayan mentre invece i leaders palestinesi armavano la propria causa. E via di questo passo.

 Il tutto conduce Black alla conclusione che, considerata l’inaffidabilità palestinese, cresce sempre più la convinzione che la soluzione sui due popoli due stati sia ormai defunta. Egli non offre una visione di progresso e non esprime speranza. E il finale del libro, ci ricorda sempre la recensione, tende apertamente per la tesi secondo la quale non sarebbe più ipotizzabile alcuna finale per quel conflitto. E non ci sarebbe da stupirsi se gli americano, già pieni di problemi, cambiassero idea.




In pratica questa recensione, firmata Peter Beinart, sintetizza le seicento pagine di Black in una opzione di sostegno alla politica di Trump per il medio oriente. Mai dire mai. 

Il NYT era ossessivamente ostile al nuovo presidente e non può cambiare linea dall’oggi al domani. Può però prenderla alla larga e cominciare a preparare i propri lettori. Ecco il messaggio di questa recensione.





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Principio di Shaw:
                                    Fai un programma che anche un idiota può usare,
                                                              e vedrai che soltanto un idiota vorrà usarlo”.

MAGNIFICAT, di John Rutter

  John Rutter è un direttore di coro e compositore contemporaneo di chiara fama e talento. La sua musica corale è accessibile, apprezzata ed...