lunedì 16 aprile 2018

1968, LA MARZOTTO IN LOTTA PER IL CONTRATTO DEI TESSILI








La vicenda interessò 350 mila OPERAI TESSILI. Nel modello di rappresentanza dei settori merceologici industriali vigente all’epoca si trattava della categoria meno pagata e quindi “più sfruttata” come si diceva allora.


Le condizioni di lavoro all’interno dei reparti erano considerate pesanti dai lavoratori e al tempo stesso insoddisfacenti dai vertici aziendali. La fibra sintetica progressivamente introdotta nel processo laniero era più resistente alle rotture durante la lavorazione e permetteva perciò, nellì’ottica aziendale, una maggiore saturazione del lavoro operaio durante l’orario di lavoro. Da qui la convinzione del management, specie quello di novo inserimento, istruito con le regole fordiste, che fosse legittimo chiedere forti incrementi di produttività a parità retributiva. Appariva ovvio aumentare sempre più le assegnazioni di macchinario a ciascun operaio. Ma questo avveniva a parità di volumi produttivi perché il mercato di sbocco per le produzioni tessili non era in crescita, e pertanto la maggiore produttività si trasformava in riduzione del personale. 


Se sulla carta appare razionale assegnare all’ operaio un numero doppio di filatoi o telai da seguire a fronte di un dimezzamento del numero di rotture all’ora, nella realtà per l’operaio cambiano tutte le condizioni di adattamento durante il turno lavorativo, a cominciare dalla deambulazione. Questa infatti aumenta più che proporzionalmente perché dipende dal lay-out di reparto e non dal numero di nodi che bisogna fare all’ora. Si trattava di molti chilometri al giorno di aumento a parità di produzione individuale. Inoltre l’aumento dei ritmi meccanici aumenta il rumore e le vibrazioni anche a parità di deambulazione. E si trattava di aumenti del disagio totalmente indipendenti da ogni incentivo di retribuzione. E quegli operai, i quali all’epoca sapevano di dover passare tutta la vita fino alla pensione in tali condizioni, non erano favorevoli ad una monetizzazione del disagio.
Dal canto suo il management voleva realizzare un forte incremento di produttività agendo soprattutto sulle condizioni organizzative e meno possibile sull’aggiornamento tecnologico. Se si cambiano i macchinari sono investimenti da ammortizzare, mentre se si fanno sgambettare di più gli operai il profitto aumenta senza costi di ammortamento.


Pertanto Confindustria si era presentata al tavolo per il rinnovo contrattuale con l’idea di portare a casa pochi aumenti e tutti sule retribuzioni a cottimo incentivo. Ma ottenendo in cambio grande margine di riorganizzazione degli orari e degli organici di reparto. E ciò, anche se non dichiarato apertamente, al fine di aumentare ritmi e carichi e indirizzare i conseguenti esuberi del personale verso l’espulsione.



Le trattative che si volgevano a Milano erano iniziate ancora nel 1967 ma si interruppero presto per lasciare libere le parti alla iniziativa aziendale. Ciò significò a Valdagno un incremento di conflitualità che non si era mai visto prima. Molti erano i giovani operai della nuova generazione nata subito dopo la guerra; e questi non accettavano i nuovi ritmi, nè avevano la tradizionale defernza verso Marzotto. La stessa vecchia generazione riservava la propria deferenza verso il vecchio Gaetano, ma non verso i suoi figli. I cosiddetti "conti correnti" (per via delle mille miglia).  


Ma la causa esasperante che portò la tensione al massimo fino agli scontri del 19 Aprile '68 con l'abbattimento della statua comitale fu il clima di forte repressione. La storica stazione dei Carabinieri venne rafforzata con la presenza della Celere, un corpo di polizia specializzato nella repressione delle manifestazioni operaie. E gli operai risposero con picchettaggi di massa e sassate.


Vi furono decine di fermi e arresti. Tutte persone locali, abitanti della vallata. Nessuno studente trentino. Lo scontro fu una resa dei conti  tra Marzotto e la sua città. La fine del paternalismo.




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