lunedì 14 settembre 2015

Sesto quesito: tutela del lavoratore, esclusione del demansionamento






Il quindicennio reaganiano, iniziato quando Tracy Chapman cantava “poor people gonna rise up and get their share…”, e conclusosi con Celine Dion che cantava “All by myself” (1996) ha sepolto - transitoriamente – la cultura della solidarietà e della contrattazione collettiva. Il risultato è che oggi i giovanotti alla Renzi considerano il demansionamento come qualcosa di utile al rilancio dell’economia.


L’idea che il rapporto di lavoro sia un contratto, un qualcosa di natura pattizia e non una relazione di asservimento, viene messa in ombra in favore del mito della libertà imprenditoriale. Libera volpe in libero pollaio. Si prescinde dal valutare i rapporti di forza tra le parti di tale contratto e si dimentica la salvaguardia del valore di ciò che il contraente debole (il lavoratore) apporta all’impresa: la propria professionalità. 

In un patto di assunzione deve essere chiaro che il lavoratore andrà adibito alle mansioni per le quali viene assunto e solo se tali mansioni scompaiono, ad esempio a causa di innovazione tecnologica come la dattilografa dopo l’arrivo del word processor, si giustifica una eventuale ridiscussione dei termini.


Se l‘impresa non ha più bisogno di una certa professionalità si entra in una situazione in cui l’ipotesi di rescissione del rapporto trova un giustificato motivo, e pertanto entrambe le parti potrebbero essere interessate a ricostituire il rapporto sulla base di un nuovo inquadramento, ma l’idea di reinquadrare (in peius of course) il lavoratore a parità di professionalità richiesta è un’aberrazione. 

Riporta infatti ad una concezione preindustriale del rapporto di lavoro, nella quale il bracciante veniva assunto perché, appunto, aveva le braccia e non perché sapeva usare un attrezzo o un macchinario.



Quarant’anni fa, ai tempi in cui facevo il turno di notte e mangiavo durante la pausa nella pignatta riscaldata, lessi – avidamente ricordo – Le condizioni della classe operaia inglese, di Carletto Marx e Federico Engels e capii che ciò che facevo aveva un valore e che, per quanto povera, la mia mansione mi dava la dignità che meritavo. A quel tempo non occorreva saper contar balle per valere, bastava capire che io e quello che firma la mia busta paga siamo uguali davanti alla legge.



Ora da qualche mese in Italia qualche giovanotto cresciuto davanti alla televisione senza mai dover riscaldare la pignatta, ha pensato che per rilancare il PIL bastasse togliere proprio l’uguaglianza fingendo di non capire che così si finisce per togliere la dignità. E le imprese dove non c’è la dignità di chi ci lavora non funzionano.


Cancelliamo quindi, per carità, quella norma del Jobs Act che legittima il demansionamento e ripristiniamo la preesistente formulazione del Codice Civile (art 2103) sotto la cui giurisdizione la dignità di milioni di lavoratori è stata difesa per tanti decenni.




E quando l’avremo fatto regaliamo a renzuschino quel libro che mostra in quali condizioni si può finire quando si affida la discrezionalità totale all’imprenditore facendo di lui l’unico padrone del rapporto di lavoro.













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