martedì 26 dicembre 2017

Sessantotto, note varie






Il 21 dicembre 1967 il settimanale londinese The Economist pubblicò un articolo che descriveva e commentava le occupazioni studentesche italiane. I nuovi fermenti e le nuove rivendicazioni venivano percepiti come un problema, si pensavano premonizioni distruttive e gli studi di Fasanella e Grippo dimostrano oggi come nei livelli occulti del potere britannico si pensava di infiltrare il movimento per scatenare la repressione. Ciò che avverrà negli anni successivi, quelli di piombo.

Paradossalmente invece la Chiesa Cattolica nella sua nuova componente conciliare si aprì, non senza difficoltà of course, e si tuffò nella nova domanda di pace e amore cercando di portarvi la fede. Da lì viene ad esempio la teologia della liberazione: tra cristianesimo e rivoluzione non c’è contraddizione. Questo si diceva in America Latina con le vene aperte. E quel grido di libertà veniva soffocato dall’imperialismo multinazionale che metteva gli elettrodi sui testicoli dei giovani. E ci furono tante grida soffocate, ma i torturatori non sono ancora passati. No pasaran. Hanno ucciso Che Guevara, ma Fidel è morto comunista in una Cuba ancora libera di scegliersi il destino e a quanto pare è ancora comunista. Toh! Può darsi che i cubani si sbaglino, può darsi che girino ancora con le auto degli anni sessanta, ma sono ancora loro a decidere. E questo è quello che conta.

                Il film in ginocchio da te con Morandi/Efrikian, tratto dalla canzone omonima di Migliacci e Zambrini era in auge quando i Beatles arrivarono per la prima volta a Milano. Nel film si vedono Napoli, Posillipo e il pontile nord dell’Italsider di Bagnoli, oggi area pedonale. Il soggetto è uno stereotipo italo-amoroso-benpensante di una Italia ricostruita e rilanciata sul piano internazionale che vuole esportare la propria immagine, anche di potenza industriale. Ma quell’Italia non capiva e non voleva contaminazioni da beatlesmania.

Valerio Mattioli in SUPERONDA, un ottimo libro sulla nostra musica di quegli anni, coglie perfettamente, a mio avviso, lo spirito del tempo (1964). Egli scrive:
Al paventato pericolo rosso proveniente dall’Est, si andava sostituendo una minaccia più subdola e forse per questo ancora più insidiosa, perché riguardava i costumi, i rapporti di genere, le relazioni internazionali. Dietro quegli sbarazzini yeah yeah yeah non era difficile intravvedere una potenziale carica eversiva comportamentale e sessuale.” (pg 120)

Si coglieva l’attacco al modello Sanremo e si temeva la destabilizzazione di quella relativa stabilità che la generazione delle due guerre aveva finalmente trovato. Lo Shake: FIGURE CHE SI MUOVONO IN UN GIOCO FATTO SOLO DI LUCI E MUSICA. Il beat si diffuse lentamente solo a partire dal 1966 con la radiofonia giovanile, il Piper e le sue imitazioni, ma non va dimenticato il contributo di Radio Monte Carlo, emittente d’oltreconfine. Le cantine però erano già partite a scimmiottare Beatles e Rolling Stones. Era però un beat fatto in casa, all’italiana che poteva apparire parodistico. In proposito Riccardo Bertoncelli coniò l’appellativo “bitt” che coglie il tono casereccio e un po’ impacciato col quale venne da noi colta la nuova creatività giovanile. Ma venne e si impresse per sempre nella nuova generazione.

Nota: Raffaele Favero, batterista dei Profeti, andò in oriente con un gruppo di seguaci. Pakistan, India e Afghanistan ov’egli si stabilì. Raggranellava qualche soldino come corrispondente de L’Ora. Si convertì all’islam e si integrò tra i Pashtun. Si arruolò nei mujaheddin contro l’invasione sovietica e morì nel 1983 (incidente d’auto).


La canzone 29 settembre (1967), di Mogol Battisti cantata dagli Equipe 84 ovvero il complesso più italo/sessantottino dell’epoca, narra un adulterio su melodia ondivaga e priva di ritornello… come se non si volesse rifarlo, ma alla fine vince l’amore e la musica non ha finale. Si disperde nel futuro.

Gli Equipe ’84 aprirono un negozio Beat a Milano, in via Solferino conservando l’insegna che diceva “drogheria” per non perdere il doppio senso. Imitavano l’idea della Apple, all’italiana. Però gli interni erano decorati da Guido CREPAX con una estetica erotico-onirica di qualità. Poi Vandelli comprò una villetta in stile liberty sempre a Milano in via Bodoni, dove prese vita una comune con porta sempre aperta e conigli bianchi in giardino. Quel posto ospitò Jimi Hendrix, Keith Richard e Andy Warhol. Libertà sessuale e sballo creativo. La cosa durò fintantoché Alfio Cantarella, il batterista del gruppo, venne condannato ad un anno e mezzo di carcere per droga. Il gruppo si sciolse e Franco Ceccarelli, il chitarrista, si ritirò a Kabul. Fino al 1971.
Sono esempi di come il sessantotto, che aveva visto i Beatles stabilirsi per alcuni mesi in India a Risikesh per imparare ad usare la meditazione come nuova fonte ispirativa, sia stato pervasivo in tutta la generazione senza limiti nazionali.
In Italia l’apertura al modello hippy non è mai avvenuta alla grande, l’estabishment (RAI, case discografiche, Sanremo ecc.) ha aperto le porte in ritardo e solo parzialmente ma la trasformazione dei comportamenti giovanili si è fatta strada da sola nelle cantine prima e nelle piazze poi. Il sessantotto è stato un’onda più forte delle difese disponibili al sistema conservatore dell’epoca.
Fu una specie di tsunami selettivo: spazzò via vecchi pregiudizi e vecchi divieti ma lanciò i valori della pace, la libertà, i diritti, l’arte, la musica e l’amore. Oggi il mondo della generazione sessantottina e post-sessantottina è pieno di problemi e la guerra, la fame, l’oppressione esistono ancora, vorrei vedere, ma si sta meglio di prima e se l’attacco orwelliano è molto forte, ebbene esso non ha ancora vinto. Perché ci siamo noi. Quelli del sessantotto. I nostri omologhi americani vinsero la battaglia ideale contro la guerra perché fu mostrata a tutti la verità della condizione militare in Viet Nam.

Da allora il regime orwelliano investe miliardi di dollari per evitare che l’opinione pubblica sappia la verità delle guerre che fa. Ma noi lo sappiamo com’è e non ci siamo cascati in Irak, in Afghanistan. Sono guerre che non volgiamo e ci stanno antipatiche e con noi l’intera opinione pubblica che ha riempito l’Italia delle bandere della PACE.  Certo, i nostri figli hanno dovuto affrontare la contro-ondata edonista reaganiana degli anni ottanta e ora vivono e lavorano nella società berlusconizzata in presenza di un tentativo persistente di banalizzare e mercificare quei valori in nome del consumo, ma sono liberi, istruiti e ambiziosi. Vogliono vincere, e vinceranno. Useranno le tecnologie contro il sistema. Avranno il futuro nei loro occhi. Perché noi glieli abbiamo aperti…



Benvenuto anno nuovo. Benvenuto sessantotto.



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